Psicologa | Giornalista | Docente Università | Scrittrice

La newsletter che parla di parole, pensieri e cervelli narrativi

di Marta Pettolino Valfrè

La differenza tra educazione e perbenismo

Perbenismo

L’ho raccontato più volte e altrettante lo racconterò, perché è una cosa a cui la maggior parte delle persone non fa caso, ma che invece porta con sé quel perbenismo inconsapevole che fa male alla nostra mente e ai nostri rapporti sociali.
Quando dirigevo alcune testate giornalistiche le mail a me indirizzate si aprivano così: Gent.ma Dott.ssa. Ci vedete qualcosa di male? Qualche significato implicito? Forse sì, forse no. Ora però chiedetevi: se io fossi stata un uomo o se voi doveste scrivere una e-mail a un direttore di un giornale maschio, come iniziereste la lettera?
Quasi sicuramente: Egregio Direttore.
Perché cambiamo formula quando cambia il genere del destinatario? Stesso ruolo, ma genere diverso.
Analizziamo cosa si nasconde sotto queste formule.
La prima differenza è fra Gentilissima e Egregio, la prima fa riferimento a un’area personale ed emotiva, la seconda a un ruolo sociale e di prestigio. Quindi a parità di ruolo alla donna va ricordato il suo ambito, quello di cura e di anima gentile, quello che ci si aspetta da una donna e quello che dovrebbe essere. Nessun riferimento al suo lavoro, ai suoi meriti e al prestigio. Non sono cose da donne. Infatti, egregio fa riferimento alla stima che una persona prova per i successi raggiunti in ambito pubblico, degno di valore e fuori dal comune. Cose da maschi.

Il secondo termine Dottoressa e Direttore. Anche qui il divario è ampio. Il primo termine fa riferimento agli studi effettuati, ma ancora una volta nessun riferimento al ruolo in una società, il secondo, invece, indica il livello che si è raggiunto nella carriera. Ma si sa, anche queste sono cose da uomini.

Per quanto noi donne possiamo raggiungere traguardi per noi importanti, queste due locuzioni ci ricordano per cosa siamo portate noi e per cosa sono portati gli uomini.
E attenzione perché avere questi stereotipi nella testa vuol dire pagare un prezzo altissimo, per tutte e tutti, anche per gli uomini, che hanno imperativi di successo, la cui definizione non è personale ma legata soprattutto allo status economico.

Un Gentilissimə non si nega a nessunə

Da un po’ di tempo però è entrata in usanza una formula di apertura delle email “inclusiva”, cioè: siamo tutti gentilissimi, indipendentemente dal genere.
E questo è davvero divertente: invece di usare delle formule di saluto come buongiorno, buonasera, come si farebbe in una conversazione normale, o appellare le donne con una qualificazione inerente al ruolo, abbiamo deciso di banalizzare e far ricadere tutte e tutti a una caratteristica personale di cui il mittente spesso non sa nulla.
Quella parola così si svuota del suo significato profondo e meraviglioso. La gentilezza, e lo sa bene chi ha fatto i miei corsi su questo tema, ha un potere salvifico su tantissimi aspetti della nostra vita. Ma così non lo ha più perché è banalizzato o reso manipolativo.
In più è fuori luogo, perché non possiamo sapere se quella persona è gentile oppure no.
A me sono arrivate anche email piccate e arroganti che aprivano con Gentilissima. Un po’ fa ridere e un po’ no.
Sappiamo già che le parole contano e che creano immagini e stati d’animo e che le prime che usiamo danno un effetto priming (concetto caro alla psicologia cognitiva che indica, semplificando, che quello che dico prima influenzerà quello che dirò dopo).
Che effetto vi fa una persona che vi dice come siete senza conoscervi? Io non mi fido e quindi la mail che seguirà la leggerò in modo guardingo e diffidente.

Differenza tra educazione e perbenismo

Allora perché si continua ad usare questa formula?
Perché dobbiamo dimostrare di essere educati e gentili. Ma una formula che si usa indistintamente in tutte le email quanto autentica può apparire?
Oltre che essere impersonale, ci dà l’impressione che sia stata scritta seguendo uno schema.
Come spesso dico: facciamo prima noi quello che vogliamo che le altre persone facciano nei nostri confronti. Se non dedichiamo tempo a quella email o a quella persona perché dovrebbe lei dedicarlo a noi?
La differenza fra perbenismo ed educazione è abissale, da una parte c’è l’etichetta stereotipata e dicotomica di cosa è giusto fare e cosa no, dove noi non esistiamo più, scompariamo per lasciare posto a regole imposte, e dall’altra ci siamo noi con il nostro personale linguaggio, comportamento e modello del mondo.

Un sondaggio del Times ha messo in evidenza che una persona su quattro, tra i 18 e i 34 anni, non risponde mai al cellulare, perché la maggior parte (quasi il 70%) va in ansia al solo pensiero di rispondere. La conversazione naturale è stata sostituita con i messaggi vocali a senso unico o con i messaggi scritti.
Cosa ci fa capire questo?
Che stiamo perdendo l’attitudine al dialogo e alle relazioni estermporanee. Abbiamo sempre più bisogno di una protezione dall’esposizione emotiva.
Sempre di più si affaccia la necessità di introdurre fin dalle prime scuole elementari alcune materie fondamentali come l’educazione emotiva, all’affettività e alla sessualità.
Riappropriamoci il diritti di essere noi stessə e di essere autenticə.

Un giro di lingua

Treccani ci suggerisce questa definizione di perbenismo: “Con connotazione polemica, modo di comportarsi di chi vuole apparire persona perbene, seguendo con qualche ostentazione le norme della morale comune o uniformandosi a quelle della classe sociale dominante”.

Questo è il problema, che si rifà alla classe sociale dominante, che ci impone comportamenti e modi di pensare e di giudicare stereotipati, svilendo così qualsivoglia diversità e personalizzazione, facendoci ricadere tutte e tutti in quel calderone che è un nome neutro come “la gente”.

Le regole ci vogliono ma ci vuole anche lo spazio per essere noi, esseri unici, e ci vuole lo spazio per sentirci al sicuro nella nostra unicità.

Diciamo che io sto più sul versante Murgia: “Posso lasciarvi un’eredità? Disobbedite. Rompete la regola. Non fatevi mai dire che non state bene con quello che vi fa stare bene. Quello che vi sta bene, vi sta bene sempre, e se non sta bene a loro è un problema loro. Come dire? Dovete piacervi, non compiacere”.

 

Amen.

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Il public speaking per me è molto di più del parlare in pubblico, perché ci fa fare i conti con noi, con le nostre paure, ma anche con i nostri sogni e le nostre speranze. È un guardarsi dentro prima che fuori, è un parlare con noi stess* prima che con le altre persone. È anche guardare in faccia cose che non ci piacciono, ed è anche imparare a conoscersi meglio e a dirsi: sono stata brava!

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Ne ho scritto un altro:

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25 modi di dire che ci hanno incasinato la vita

Le parole che usiamo non servono solo a descrivere la realtà ma influenzano inconsapevolmente anche i nostri pensieri e determinano quindi i nostri comportamenti. Occuparsi delle parole vuol dire soprattutto prendersi cura di sé e della propria mente. E non esistono cose più urgenti di dedicarci a noi e al rapporto con le altre persone. Questo viaggio ironico e al contempo molto serio ci porta, attraverso venticinque modi di dire che spesso usiamo inconsapevolmente, all’interno å una società ancora troppo maschilista, nella quale le donne troppo spesso mettono in atto comportamenti auto-sabotanti. Sono parole “di seconda mano”, che utilizziamo senza compiere una vera e consapevole scelta, sono parole non nostre ma che, nel momento in cui le pronunciamo, dicono tanto anche di noi, di chi siamo, di cosa (senza rifletterci) pensiamo e di come ci comportiamo. Grazie alle riflessioni di Nacci e Pettolino Valfrè, impariamo a riscrivere la nostra voce interiore, a disinnescare i nostri automatismi in modo che, quando staremo per esclamare a una donna: “Hai proprio le palle!”, ci verrà da ridere ripensando a cosa vuol dire, a quanto sia assurdo, e ci porterà a domandarci: “Sono veramente io che sto scegliendo questi termini?”, “Chi è la padrona o il padrone della mia mente?” e ancora: “Posso amare le parole che ho detto?”.

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