Per qualche persona sarà un ricordo più lontano, per altre ancora troppo vicino per non sentire ancora un po’ di malinconia da vacanza.
Quante volte hai sentito, o pensato, che da settembre le cose sarebbero cambiate, che le vacanze sono servite per capire la vera essenza della vita, le cose importanti e che bisogna dedicare meno al lavoro, per riappropriarsi del proprio tempo e del proprio benessere? Eppure bastano pochi giorni per rientrare nel vortice della routine. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, se questo cambiamento non cristallizzasse brutte abitudini a cui non facciamo quasi più caso. Un giorno dobbiamo allontanarci dai ritmi frenetici, dai social che ci rubano il tempo, giocare di più con partner e prole e pochi giorni dopo si affollano pensieri e convinzioni altrettanto radicati sull’impossibilità di farlo: “Per me non è possibile perché…” e giù di scuse, che poi sono sempre le stesse.
Qualche problema ce l’ha pure chi non vedeva l’ora di rientrare dalle vacanze e tornare alla routine.
Cosa è successo, dunque? Abbiamo provato il benessere di aver tolto e a settembre dobbiamo, per cause di forza maggiore, rimettere e ri-performare. Ed è più facile tornare nei limiti della performance se si nega quello stare bene e se ci si convince che non è possibile provare quella sensazione di benessere se non in vancanza.
Facci caso, quando ti arrivano (o quando mandi) i messaggi per gli auguri di buone vacanze e di buone feste, solitamente il testo cosa prevede? A me solitamente c’è un RIPOSATI, mai un DIVERTITI, GODITI LA VITA e SPACCATI DALLE RISATE. E come sempre le parole esprimono qualcosa su di chi le dice (e ben poco su chi le riceve) e questo augurio racconta come la maggioranza vive oggi la quotidianità e su come il pensiero dominante sia che il riposo, dalla solita vita, sia il miglior augurio che si possa fare.
I bisogni della mente
Sono essenzialmente due i momenti nei quali durante l’anno pensiamo di migliorare la nostra vita e sono due inizi: settembre e capodanno. In un’altra newsletter avevamo già affrontato il tema dei buoni propositi e del perché non si avverano.
Il primo grande motivo di questa ambivalenza fra pensieri estivi e invernali è che la maggior parte delle persone è completamente assorta dall’andazzo quotidiano da dimenticarsi che la nostra mente e il nostro corpo hanno bisogno di sperimentarsi in più aree per stare bene: lavoro, vita sociale, relazioni familiari e intime, viaggi e scoperta, saggiarsi in cose nuove e nutrirsi bene, sia nel corpo sia nella mente.
Invece, spesso, si vivono poche esperienze e si ripetono sovente gli stessi schemi.
Il problema grosso è che facciamo le vacanze una volta all’anno e in quelle deponiamo tutte le nostre aspettative di una vita migliore. Ci sta che non tutti possano andare a Bali durante il tempo lavorativo, se non si ha un lavoro che permette lo smart working, e che quindi si usino le ferie per fare viaggi e scoperte. Ma attenzione a non riservare a questo periodo dell’anno tutte le aspettative e la cura di noi. Un altro pericolo è far divenire, come troppo spesso si assiste, anche le vacanze una performance da far vedere e in cui essere migliori. Posti sempre più lontani, meno battuti, per dimostrare di essere più intraprendenti e avventurosi, per sentirsi più abili, perché valiamo, come se chi resta a Nichelino, per dire, valesse meno. Sembra quasi, e non è l’unica volta, che il valore che attribuiamo a qualcosa di esterno (come le vacanze, il lavoro e il reddito, per esempio) prendesse il posto del valore interiore di una persona.
Quest’estate ho scelto di prendermi una grande pausa da internet (non è la prima volta) e non ho neppure avvertito, senza storie su ig o risponditori automatici che raccontavano per quanto tempo o perché volevo riposarmi, divertirmi, non pensare al lavoro e godermi un momento di rigenerazione.
Ho perso follower, un bel po’, devo ammettere. Ho perso visibilità. Ho perso engagement. Ma ho guadagnato il vivere la vita “dal vivo” e senza filtri. Pessima mossa mi hanno detto, devi pubblicare contenuti in modo costante. Lo so, è vero. Ma, ho detto NO.
Non potrei fare una professione di aiuto e di divulgazione se non potessi contare sul mio equilibrio interiore, che passa per me anche dall’allontanamento dalla visibilità e dalla performare a tutti i costi.
Come imparare a dire NO
Ed è indiscutibile che se ci sembra di essere sopraffatte e sopraffatti una buona dose di responsabilità ce l’ha la capacità di dire No alle cose che non vorremmo fare. Una domanda che mi fanno spesso durante i corsi è proprio perché si fa fatica a rifiutare e a dire quello che si vorrebbe veramente. I motivi possono essere diversi, ma nella maggior parte dei casi sono collegati al timore di deludere le aspettative che si pensa possano avere le altre persone e al disagio di non sentirsi all’altezza, incappando quindi nella paura del giudizio altrui e spesso nel giudice più severo che è quello al nostro interno.
È importante imparare a calibrare bene quando dire sì e quando no. La prima risposta ci apre a nuove possibilità e la seconda mette in risalto, invece, il prevalere di una propria volontà. Usarli in modo non consapevole porta spesso a stress e a sentirsi senza via d’uscita. Anche dire sempre No è sbagliato e ai soggetti che sono inclini a questa risposta come prima e istintuale potrebbe essere interessante chiedere cosa li rassicura nello status quo e nel non voler cambiare le cose. Ma il No, al momento giusto, implica anche un prendersi cura di sé. Quando diciamo “No”, stiamo affermando i nostri bisogni e questo stringe la mano all’aumento dell’autostima e soprattutto alla riduzione del risentimento e della rabbia verso sé e verso le persone con cui ci si relaziona.
Ricordiamoci sempre che ogni volta che diciamo Sì a qualcosa stiamo anche dicendo No ad altro, chiediti a cosa.
Che genere di NO
Anche la possibilità di dire No è un po’ figlia del patriarcato.
In molte culture, a verder bene in quasi tutte, le donne sono socializzate a essere più disponibili e accomodanti, il che può portare a una maggiore difficoltà nel dire “No”. Sono ancora molti i contesti nei quali dire “No”, da parte di una donna, è percepito come un comportamento egoista, poco femminile o aggressivo. Culturalmente, alle femmine viene insegnato a essere accomodanti, a evitare conflitti, a mettere i bisogni degli altri davanti ai propri. Questa socializzazione influenza la capacità di dire “No”, rendendolo un atto spesso difficile, associato a sensi di colpa o paura di giudizi negativi.
Anche perché quando una donna ha un comportamento assertivo viene spesso interpretato come aggressivo fino ad arrivare a dire e pensare: “Quella è proprio un uomo”. Il No non è gentile e si sa noi donne dobbiamo essere Gent.me.
Questa cultura pervade sia in ambito lavorativo sia in ambito privato. A lavoro dalle donne ci si aspetta che accettino più richieste non correlate alle loro mansioni principali. Come quella di prendere appunti in una riunione e scrivere la mail di riepilogo, come telefonare al bar per ordinare il pranzo se capita di trattenersi in ufficio, come organizzare momenti di socializzazione e così via. Tutto questo influisce sia sul tempo, sia sull’energia che le donne devono mettere sul lavoro e uscite dall’ufficio si arriva a casa, dove ci si aspetta ancora molto da loro. Anche se la famiglia oggi sta cambiando, con buona pace di Meloni & Co., non possiamo certo credere che sia una strada facile quella in ambito privato, dove i cambiamenti spesso sono lunghi e microscopici e si finisce anche in famiglia a dare un carico sbilanciato alle donne e a pretendere un sacrificio maggiore.
Non dico che la paura di dire un no sia minore per chi appartiene a un genere diverso da quello femminile, dico solo che in tal caso è personale e non sociale, derivata dalla propria storia e non dalla cultura predominante. Ci vogliono brave ragazze, un’idea che ancora oggi serpeggia anche nelle menti più libere: dobbiamo essere pazienti, accomodanti, prenderci cura delle altre persone e essere socievoli. Le ribelli a questi dogmi sono percepite come fredde, difficili, poco femminili. Anche se, a guardar bene, se lo stesso comportamento lo adottasse un uomo sarebbe un leader che sa il fatto suo.
Come fanno i bambini e le bambine
Dico spesso che noi persone adulte dovremmo imparare dai bambini e dalle bambine. Cosa fanno loro per affermarsi? Dicono un sacco di No, rischiando una crisi di nervi dei genitori. Però è così che si diventa grandi: con i sì e con i no. Re-impariamo anche da grandi a mettere i nostri confini.
Riappropriarsi dei No è un atto di cambiamento e di autoaffermazione, è un modo per attestare la propria autonomia e per sfidare le aspettative culturali.Riappropriarsi dei No è un atto di cambiamento e di autoaffermazione, è un modo per attestare la propria autonomia e per sfidare le aspettative culturali.