Psicologa | Giornalista | Docente Università | Scrittrice

La newsletter che parla di parole, pensieri e cervelli narrativi

di Marta Pettolino Valfrè

Saper dire NO: l’arma segreta che non ti hanno mai insegnato

Come si impara a dire no

Per qualche persona sarà un ricordo più lontano, per altre ancora troppo vicino per non sentire ancora un po’ di malinconia da vacanza.
Quante volte hai sentito, o pensato, che da settembre le cose sarebbero cambiate, che le vacanze sono servite per capire la vera essenza della vita, le cose importanti e che bisogna dedicare meno al lavoro, per riappropriarsi del proprio tempo e del proprio benessere? Eppure bastano pochi giorni per rientrare nel vortice della routine. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, se questo cambiamento non cristallizzasse brutte abitudini a cui non facciamo quasi più caso. Un giorno dobbiamo allontanarci dai ritmi frenetici, dai social che ci rubano il tempo, giocare di più con partner e prole e pochi giorni dopo si affollano pensieri e convinzioni altrettanto radicati sull’impossibilità di farlo: “Per me non è possibile perché…” e giù di scuse, che poi sono sempre le stesse.

Qualche problema ce l’ha pure chi non vedeva l’ora di rientrare dalle vacanze e tornare alla routine.

Cosa è successo, dunque? Abbiamo provato il benessere di aver tolto e a settembre dobbiamo, per cause di forza maggiore, rimettere e ri-performare. Ed è più facile tornare nei limiti della performance se si nega quello stare bene e se ci si convince che non è possibile provare quella sensazione di benessere se non in vancanza.
Facci caso, quando ti arrivano (o quando mandi) i messaggi per gli auguri di buone vacanze e di buone feste, solitamente il testo cosa prevede? A me solitamente c’è un RIPOSATI, mai un DIVERTITI, GODITI LA VITA e SPACCATI DALLE RISATE. E come sempre le parole esprimono qualcosa su di chi le dice (e ben poco su chi le riceve) e questo augurio racconta come la maggioranza vive oggi la quotidianità e su come il pensiero dominante sia che il riposo, dalla solita vita, sia il miglior augurio che si possa fare.

I bisogni della mente

Sono essenzialmente due i momenti nei quali durante l’anno pensiamo di migliorare la nostra vita e sono due inizi: settembre e capodanno. In un’altra newsletter avevamo già affrontato il tema dei buoni propositi e del perché non si avverano.

Il primo grande motivo di questa ambivalenza fra pensieri estivi e invernali è che la maggior parte delle persone è completamente assorta dall’andazzo quotidiano da dimenticarsi che la nostra mente e il nostro corpo hanno bisogno di sperimentarsi in più aree per stare bene: lavoro, vita sociale, relazioni familiari e intime, viaggi e scoperta, saggiarsi in cose nuove e nutrirsi bene, sia nel corpo sia nella mente.

Invece, spesso, si vivono poche esperienze e si ripetono sovente gli stessi schemi.

Il problema grosso è che facciamo le vacanze una volta all’anno e in quelle deponiamo tutte le nostre aspettative di una vita migliore. Ci sta che non tutti possano andare a Bali durante il tempo lavorativo, se non si ha un lavoro che permette lo smart working, e che quindi si usino le ferie per fare viaggi e scoperte. Ma attenzione a non riservare a questo periodo dell’anno tutte le aspettative e la cura di noi. Un altro pericolo è far divenire, come troppo spesso si assiste, anche le vacanze una performance da far vedere e in cui essere migliori. Posti sempre più lontani, meno battuti, per dimostrare di essere più intraprendenti e avventurosi, per sentirsi più abili, perché valiamo, come se chi resta a Nichelino, per dire, valesse meno. Sembra quasi, e non è l’unica volta, che il valore che attribuiamo a qualcosa di esterno (come le vacanze, il lavoro e il reddito, per esempio) prendesse il posto del valore interiore di una persona.


Quest’estate ho scelto di prendermi una grande pausa da internet (non è la prima volta) e non ho neppure avvertito, senza storie su ig o risponditori automatici che raccontavano per quanto tempo o perché volevo riposarmi, divertirmi, non pensare al lavoro e godermi un momento di rigenerazione.

Ho perso follower, un bel po’, devo ammettere. Ho perso visibilità. Ho perso engagement. Ma ho guadagnato il vivere la vita “dal vivo” e senza filtri. Pessima mossa mi hanno detto, devi pubblicare contenuti in modo costante. Lo so, è vero. Ma, ho detto NO.

Non potrei fare una professione di aiuto e di divulgazione se non potessi contare sul mio equilibrio interiore, che passa per me anche dall’allontanamento dalla visibilità e dalla performare a tutti i costi.

I bisogni della mente

Come imparare a dire NO

Ed è indiscutibile che se ci sembra di essere sopraffatte e sopraffatti una buona dose di responsabilità ce l’ha la capacità di dire No alle cose che non vorremmo fare. Una domanda che mi fanno spesso durante i corsi è proprio perché si fa fatica a rifiutare e a dire quello che si vorrebbe veramente. I motivi possono essere diversi, ma nella maggior parte dei casi sono collegati al timore di deludere le aspettative che si pensa possano avere le altre persone e al disagio di non sentirsi all’altezza, incappando quindi nella paura del giudizio altrui e spesso nel giudice più severo che è quello al nostro interno.

È importante imparare a calibrare bene quando dire sì e quando no. La prima risposta ci apre a nuove possibilità e la seconda mette in risalto, invece, il prevalere di una propria volontà. Usarli in modo non consapevole porta spesso a stress e a sentirsi senza via d’uscita. Anche dire sempre No è sbagliato e ai soggetti che sono inclini a questa risposta come prima e istintuale potrebbe essere interessante chiedere cosa li rassicura nello status quo e nel non voler cambiare le cose. Ma il No, al momento giusto, implica anche un prendersi cura di sé. Quando diciamo “No”, stiamo affermando i nostri bisogni e questo stringe la mano all’aumento dell’autostima e soprattutto alla riduzione del risentimento e della rabbia verso sé e verso le persone con cui ci si relaziona.

Ricordiamoci sempre che ogni volta che diciamo Sì a qualcosa stiamo anche dicendo No ad altro, chiediti a cosa.

Che genere di NO

Anche la possibilità di dire No è un po’ figlia del patriarcato.

In molte culture, a verder bene in quasi tutte, le donne sono socializzate a essere più disponibili e accomodanti, il che può portare a una maggiore difficoltà nel dire “No”. Sono ancora molti i contesti nei quali dire “No”, da parte di una donna, è percepito come un comportamento egoista, poco femminile o aggressivo. Culturalmente, alle femmine viene insegnato a essere accomodanti, a evitare conflitti, a mettere i bisogni degli altri davanti ai propri. Questa socializzazione influenza la capacità di dire “No”, rendendolo un atto spesso difficile, associato a sensi di colpa o paura di giudizi negativi.
Anche perché quando una donna ha un comportamento assertivo viene spesso interpretato come aggressivo fino ad arrivare a dire e pensare: “Quella è proprio un uomo”. Il No non è gentile e si sa noi donne dobbiamo essere Gent.me.

Questa cultura pervade sia in ambito lavorativo sia in ambito privato. A lavoro dalle donne ci si aspetta che accettino più richieste non correlate alle loro mansioni principali. Come quella di prendere appunti in una riunione e scrivere la mail di riepilogo, come telefonare al bar per ordinare il pranzo se capita di trattenersi in ufficio, come organizzare momenti di socializzazione e così via. Tutto questo influisce sia sul tempo, sia sull’energia che le donne devono mettere sul lavoro e uscite dall’ufficio si arriva a casa, dove ci si aspetta ancora molto da loro. Anche se la famiglia oggi sta cambiando, con buona pace di Meloni & Co., non possiamo certo credere che sia una strada facile quella in ambito privato, dove i cambiamenti spesso sono lunghi e microscopici e si finisce anche in famiglia a dare un carico sbilanciato alle donne e a pretendere un sacrificio maggiore.

Non dico che la paura di dire un no sia minore per chi appartiene a un genere diverso da quello femminile, dico solo che in tal caso è personale e non sociale, derivata dalla propria storia e non dalla cultura predominante. Ci vogliono brave ragazze, un’idea che ancora oggi serpeggia anche nelle menti più libere: dobbiamo essere pazienti, accomodanti, prenderci cura delle altre persone e essere socievoli. Le ribelli a questi dogmi sono percepite come fredde, difficili, poco femminili. Anche se, a guardar bene, se lo stesso comportamento lo adottasse un uomo sarebbe un leader che sa il fatto suo.

Come fanno i bambini e le bambine

Dico spesso che noi persone adulte dovremmo imparare dai bambini e dalle bambine. Cosa fanno loro per affermarsi? Dicono un sacco di No, rischiando una crisi di nervi dei genitori. Però è così che si diventa grandi: con i sì e con i no. Re-impariamo anche da grandi a mettere i nostri confini.

Riappropriarsi dei No è un atto di cambiamento e di autoaffermazione, è un modo per attestare la propria autonomia e per sfidare le aspettative culturali.Riappropriarsi dei No è un atto di cambiamento e di autoaffermazione, è un modo per attestare la propria autonomia e per sfidare le aspettative culturali.

Un giro di lingua

Qualche giorno fa mi è risuonata in modo diverso dal solito una parola, che ha cambiato negli ultimi anni significato. La parola è “Amico”. Prima di Facebook l’amicizia era un sentimento di prim’ordine. Deriva dal latino amicus: affine ad amare. Oggi questa parola è diventata semanticamente densa, cioè solo il contesto ci può svelare di cosa stiamo parlando. Gli amici sono anche quelli dei social, che magari non conosciamo e non conosceremo mai. E questa perdita di significato, o questo guadagno di ambivalenza, fa sembrare tutto come una grande agorà dove ci si conosce (anche se non è così), ci si dà del tu, ci si permette di giudicare e spesso di esprimere con veemenza la propria opinione, in un modo molto diverso da quello che faremo nella realtà. Quanto tempo passiamo sui social e quanto nelle case dei nostri e delle nostre amiche?
Questa risposta dice molto anche sul tema principale di questo mese: il nostro benessere e la vita che vogliamo vivere. Quante cose “affini all’amore” stai vivendo?

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Ho scritto un libro

IL CORPO EMOTIVO NEL PUBLIC SPEAKING

Manuale pratico tra mente, cuore e storytelling

Il public speaking per me è molto di più del parlare in pubblico, perché ci fa fare i conti con noi, con le nostre paure, ma anche con i nostri sogni e le nostre speranze. È un guardarsi dentro prima che fuori, è un parlare con noi stess* prima che con le altre persone. È anche guardare in faccia cose che non ci piacciono, ed è anche imparare a conoscersi meglio e a dirsi: sono stata brava!

Dentro questo libro troverai una parte dedicata alle emozioni e a come tenerle per mano senza farti governare. C’è anche uno Speciale Ansia! Una parte è dedicata al linguaggio e a come si formano i pensieri nella nostra mente. Un’altra, a grande richiesta, è sulla comunicazione non verbale e in ultimo ci sono le mie tecniche preferite di storytelling. E tanti e tanti esercizi.

 

“È un libro che mette ordine tra falsi miti e prove scientifiche, adatto per organizzare discorsi sia preparati, sia improvvisati. Per chi vuole essere leader e muovere opinioni, per chi ha un sogno e vuole raggiungerlo, per chi vuole parlare con mille altre persone o una sola”.

Ne ho scritto un altro:

CHE PALLE ‘STI STEREOTIPI

25 modi di dire che ci hanno incasinato la vita

Le parole che usiamo non servono solo a descrivere la realtà ma influenzano inconsapevolmente anche i nostri pensieri e determinano quindi i nostri comportamenti. Occuparsi delle parole vuol dire soprattutto prendersi cura di sé e della propria mente. E non esistono cose più urgenti di dedicarci a noi e al rapporto con le altre persone. Questo viaggio ironico e al contempo molto serio ci porta, attraverso venticinque modi di dire che spesso usiamo inconsapevolmente, all’interno å una società ancora troppo maschilista, nella quale le donne troppo spesso mettono in atto comportamenti auto-sabotanti. Sono parole “di seconda mano”, che utilizziamo senza compiere una vera e consapevole scelta, sono parole non nostre ma che, nel momento in cui le pronunciamo, dicono tanto anche di noi, di chi siamo, di cosa (senza rifletterci) pensiamo e di come ci comportiamo. Grazie alle riflessioni di Nacci e Pettolino Valfrè, impariamo a riscrivere la nostra voce interiore, a disinnescare i nostri automatismi in modo che, quando staremo per esclamare a una donna: “Hai proprio le palle!”, ci verrà da ridere ripensando a cosa vuol dire, a quanto sia assurdo, e ci porterà a domandarci: “Sono veramente io che sto scegliendo questi termini?”, “Chi è la padrona o il padrone della mia mente?” e ancora: “Posso amare le parole che ho detto?”.

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