Sono andata in un posto dove non conoscono cosa sia l’ansia e la depressione. Incredibile, vero? Probabilmente perderei il lavoro da psicologa lì 😅 ma sarebbe un mondo bellissimo.
E dov’è questo posto?
Ho fatto un viaggio, e forse la cosa che è stata trasportata di più è stata la mia anima. Sono stata in Nepal, in un ritiro spirituale in un monastero buddhista.
Mi sono avvicinata al buddhismo molto tempo fa e con la mindfulness ho trovato il mio centro e il mio equilibrio. Andare in Nepal è stato riavvicinarmi alla spiritualità che cercavo da tanto tempo. Quando ho perso la fede in ciò che mi era stato insegnato al catechismo e dalla cultura predominante, ho iniziato a viaggiare per ritrovare una spiritualità che per me fosse possibile. Ho visitato luoghi dove si prega in moschee, in templi, e di nuovo in chiese. Ho ripercorso i passi di Gesù, ma niente. Ho trovato sempre più conferma di quello che sentivo e che mi allontanava dalle diverse confessioni. Ho capito che la mia spiritualità è una cosa molto lontana dalla religione.
Ho poi incontrato il buddhismo come filosofia di vita e lì mi sono ritrovata.
In Nepal le mie giornate erano dedicate alla mia parte interiore che si è nutrita di bellezza e armonia.
La mia mattinata si svolgeva più o meno così:
- ore 5,30 sveglia,
- ore 6 puja (una celebrazione che può essere paragonata, solo per rendere l’idea, alla messa, ma è molto diversa),
- ore 7,30 meditazione,
- ore 8,30 colazione,
- ore 9,30 lezione buddhista con il Khenpo.
La prima volta che ho letto il programma ho pensato subito che avrei fatto colazione 3 ore dopo essermi alzata. Non è stato poi così difficile. Ti è mai capitato di pensare che una cosa che dovrai fare o che ti dovrà accadere sia molto più ardua di quello che poi è in realtà? La fregatura delle aspettative!
È stato così anche questa volta, sono stata dentro situazioni che non avevo mai vissuto prima, non sapendo cosa aspettarmi persino da me stessa.
Stare è una parola che ho iniziato a praticare anni fa, quando facevo molta fatica ad avere pazienza e volevo cambiare situazioni, programmare tutto della mia vita e molto di quella delle altre persone o delle aziende che mi pagavano per questo.
Il mio incontro con il verbo stare è stato molto doloroso, come spesso accade per gli insegnamenti importanti. La vita mi ha portato davanti a una realtà che non volevo vedere e nella quale non avevo nessun potere. E non mi è rimasto che abbandonarmi a quello che era, accettare e imparare ad accogliere.
La mia domanda al khenpo
Le lezioni di buddhismo le teneva il khenpo del monastero. Il khenpo è un monaco con determinati studi, anzianità e funzioni d’insegnamento ai monaci più giovani.
Una mattina ha spiegato l’importanza di non attribuire la colpa degli eventi o di quelli che pensiamo siano i nostri errori ad altre persone, ma imparare dagli accadimenti qualcosa su di noi, attribuendoci quella che in psicologia si chiama “agentività”, cioè la capacità che abbiamo tutte e tutti noi di indirizzare gli eventi della nostra vita.
Allora faccio una domanda che sarebbe stata semplice qui in occidente: come mette in correlazione questa attribuzione personale con l’ansia e la depressione? E qui la scoperta.
La lezione era in lingua inglese e abbiamo cercato di tradurre prima in modo letterale le parole ansia e depressione, poi con il significato di queste parole, ma niente. Il monaco non riusciva a capire cosa fossero e come si potesse provare cose simili. Ad un certo punto ci fu una sua domanda: voi in Italia state così?
Non attaccamento
È davvero possibile quindi vivere in un Paese in cui ci può anche essere dello stress (questo concetto lo capiva il monaco) ma non c’è ansia e depressione? Se ipotizziamo, anche solo per un momento, che anche la nostra società fomenta stati di ansia e depressione: la scuola, le pressioni che si impongono ai bambini, i film, la ricompensa immediata, la performance e il prestigio, è davvero così strano pensare che una società che fonda il proprio essere su valori diversi non conosca quello che per noi è lo stato d’animo predominante?
Quando ero lì ero immersa nella quiete e nella pace, va anche detto che non avevo con me fonti di stress e che ero da sola, senza nessuna pressione, come se la mia vita fosse rimasta sospesa per un po’ per permettermi di accogliere e interiorizzare cose per me importanti.
Quello che trovo di poco conforme alla completezza dell’essere umano è che in occidente tendiamo a medicalizzare quasi tutto e vogliamo combattere il malessere. Nel buddhismo si enfatizza il distacco, la meditazione e l’accettazione della sofferenza come parte naturale della vita. Qui questi stati non vengono visti come malattie, ma come stati temporanei della mente, da accettare e comprendere invece che combattere.
Una distinzione occidentale però va fatta: accettare non vuol dire arrendersi, ma lasciare andare tutto ciò su cui non abbiamo potere e agire sul resto. La nostra salute mentale e il nostro benessere sono cose su cui possiamo agire, ma possiamo farlo anche preventivamente, cambiando la cultura capitalistica e performativa nella quale la nostra società è immersa.
I concetti di “impermanenza” (ovvero l’idea che tutto è temporaneo e che nulla dura per sempre: né le cose materiali, né le esperienze emotive o mentali) e di “attaccamento” sono fondamentali per capire come la mancanza di ansia e depressione non sia una sorta di “immunità”, ma piuttosto una diversa prospettiva sulle emozioni negative: non ci attacchiamo a loro, perché sappiamo che sono temporanee. Lasciamo che arrivino e permettiamo loro di scorrere via.
Questi non sono solo un concetti teorici, come spesso succedere qui da noi, ma principi di vita quotidiana, che vengono praticati in molti modi diversi.
L’impermanenza ci ricorda che la sofferenza, l’ansia e la depressione sono come nuvole che passano. Nel mio primo libro a pag. 115 c’è anche una meditazione con le nuvole, che ci insegna che tutto passa, anche i pensieri.
Anche se in un dato momento sembra che non ci sia via d’uscita, la realtà è che queste emozioni cambiano, come cambia tutto. Il problema nasce quando ci aggrappiamo a uno stato d’animo o a una situazione, cercando di farla durare più a lungo o evitando che scompaia, proprio perché siamo noi che la teniamo in vita.
L’ansia spesso nasce dalla paura del cambiamento, dal desiderio che tutto rimanga sotto controllo, e la depressione può arrivare quando ci sentiamo bloccati in una situazione che sembra non finire mai.
Il buddhismo ci invita a non identificarci con queste emozioni. Non siamo ansia o depressione, così come non siamo gioia o felicità. Sono solo condizioni mentali temporanee, e questo ci permette di prenderne le distanze e di osservarle con calma. La pratica della meditazione, ad esempio, ci aiuta proprio in questo: osservare senza giudicare, coltivando la consapevolezza che tutto, anche il dolore, passerà.
Anche l’attaccamento è una causa di sofferenza, secondo il buddhismo. Attaccarsi a qualcosa – che sia una persona, una condizione di vita, uno stato emotivo o persino una convinzione – significa tentare di possedere qualcosa di impermanente. E quando quella cosa inevitabilmente cambia o svanisce, arriva la sofferenza. Pensa adesso ai rapporti che si hanno con il o la partner, con la famiglia, con i flgli e le figlie, e con le amicizie: quanta sofferenza c’è quando non ci sono più o non si comportano come noi vorremmo?
Non è una questione d’amore, si può amare senza possedere e si può amare lasciando libertà. È terribile per quanto sia difficile per chi è cresciuto come noi praticare il non attaccamento, perché ci sembra quasi di amare meno, di essere un po’ menefreghisti, perché la maggior parte di quello che ci è stato insegnato sull’amore si lega al possesso, alla dimostrazione e al potere. Ma l’amore vero è altro e non contempla l’attaccarsi a situazioni, persone o idee.
Ora pensa a quanto ha a che fare l’attaccamento con la violenza: domestica, ideologica e religiosa.
Lasciar andare non vuol dire ignorare le emozioni negative, ma riconoscerle senza farsi trascinare via. La sofferenza si allevia quando accettiamo che tutto è destinato a cambiare, anche i nostri stati d’animo.
Il ritorno
E poi si rientra a casa e con il bello del calore dell’accoglienza arriva anche la routine occidentale: notifiche, messaggi di lamento, rabbia, obiettivi da raggiungere a tutti i costi e visibilità da performance.
Questo è oggi per me l’occidente ed è difficile rimanere sereni qui e non farsi travolgere in dinamiche che hanno ormai sviluppato familiarità con la nostra mente e con il nostro corpo.
Dovrei accettarlo probabilmente, dovrei accettare che una parte di me non si riconosce più in molte cose che ha creduto vere per gran parte della vita. E qui sta la mia pratica personale, quello su cui mi sto impegnando.
Io ancora me la porto la quiete che ho imparato a vivere in Nepal.
Ogni giorno inizio la mia meditazione con una dedica: a me, alla mia famiglia, ad amici e amiche che stanno vivendo momenti difficili, a chi amo e a tutti gli esseri senzienti, e anche a Madre Natura. Oggi è lei la mia Dea e la mia religione.