Ti è mai capitato di sentirti in preda alla rabbia o alla tristezza e sentirti dire: “calmati” o “pensa positivo”?
Che effetto ti fa? Riescono queste parole a cambiare il tuo umore?
Immagino già la risposta, perché anche se l’altra persona ci vuole aiutare, manca una cosa essenziale: sentirci accolte e accolti, anche nelle nostre emozioni spiacevoli. È come se ci fosse una volontà di farci tornare subito a stare bene e a essere felici.
Ma la vera domanda è un’altra: perché dobbiamo mostrarci calmi, quieti e felici sempre?
L’inganno del giudizio sta nel considerare una cosa giusta o sbagliata, positiva o negativa in senso assoluto. Se pensiamo alla parola “positivo” ci sentiamo al sicuro perché questa parola lega il suo significato a qualcosa che ci dovrebbe far star bene. Ora fai un salto indietro di qualche anno: positivo durante la pandemia assumeva un significato opposto. Questo esempio esplica l’importanza del contesto per le parole polisemiche, cioè quelle parole che possono avere più significati, anche se spesso di qualcuno ce ne dimentichiamo.
La positività tossica (parola anch’essa spesso abusata) è la tendenza a vedere solo il lato positivo delle cose, è il “pensa positivo” a ogni costo. E cosa c’è di male? C’è che non si può mentire alla nostra anima. Se pensiamo che tutto sia positivo e ci sforziamo di renderlo tale allora negheremo parte della realtà, la parte che non vogliamo vedere e con questa respingeremo anche le nostre emozioni dette negative: altra parola fuorviante se legata alle emozioni. Le emozioni sono messaggi che ci comunicano qualcosa per il nostro bene, anche se ci fanno soffrire, anche se ci mettono a disagio sono messaggere importanti, il cui unico scopo è proteggerci e farci stare bene. Poi dobbiamo imparare a dialogare con loro e imparare ad andarci d’accordo, ma dobbiamo sempre accoglierle, altrimenti torneranno con voce più alta fin quando non potremo più fare a meno di sentirle, sotto tante forme diverse: somatiche e psicologiche.
Diverso è quando anche da un’esperienza dolorosa o che non è andata secondo le proprie aspettative ci si chiede: cosa posso imparare da questo? Per imparare bisogna guardare il dolore e la sofferenza.
Chi soffre della “sindrome di Pollyanna” tende a ignorare la realtà, portando attenzione solo gli aspetti belli, impendendo così un’analisi completa della realtà, evitando di entrare in contatto con emozioni, sensazioni e pensieri dolorosi e impedendo di conseguenza anche un adattamento funzionale agli eventi della propria vita.
Togliendo dalla propria percezione cosciente buona parte della vita, ovvero quella delle difficoltà e delle emozioni spiacevoli, le persone che soffrono della sindrome di Pollyanna minimizzeranno anche quando sono altre persone a stare in una condizione emotiva non piacevole. Invalideranno il dolore altrui e diranno frasi come quelle che abbiamo visto in apertura: pensa positivo, sorridi che la vita ti sorride e altre frasi che non accolgono lo stato emotivo dell’altra persona.
Ma allora ha ragione chi vede il bicchiere mezzo vuoto e chi trova sempre qualcosa che non va?
No, il pessimismo non aiuta a vivere meglio e di sicuro anche questo atteggiamento mentale è una distorsione che funziona anch’essa come meccanismo di protezione.
Ci sono studi che attestano che un atteggiamento positivo funzioni come una marcia in più sul potenziamento delle proprie capacità emotive e cognitive. Quando siamo in preda all’ansia e alle preoccupazioni prendiamo pessime decisioni o spesso non sappiamo prenderle. Chi invece ha un atteggiamento positivo potenzia anche il proprio problem solving e la propria capacità a rischiare perché riesce a fidarsi di più delle proprie risorse interiori.
Ma allora dove sta il confine tra un atteggiamento positivo tossico e uno potenziante? Sta nella valutazione di cosa togliamo. Alcuni elementi possono chiarire meglio la questione:
Anche la società ci spinge ad essere felici sempre, perché quando siamo felici consumiamo e la comunicazione pubblica, soprattutto quella sui social network, ci impone un confronto inesorabile: vediamo nei post, nelle storie e nei reels persone felici, che fanno cose da felici, in posti bellissimi, con persone importanti. E per essere a quell’altezza si deve per forza “imitare” quella felicità e quella popolarità, altrimenti il rischio è di non essere nessuno. O anche di valutare la propria vita solo in confronto dell’apice di quella di qualcun altro. Esempio: se vado in Nepal e pubblico delle foto di momenti intensi e bellissimi questo non vuol dire che la mia vita si riduca a questi momenti, ma il rischio è di generalizzare il confronto di tutta la propria vita con i soli momenti belli o importanti della vita delle altre persone. E se ci si trova a vivere emozioni negative allora il pensiero è quello di essere sbagliati e non meritare la felicità.
Il confronto sociale è innato e per molti aspetti è utile, ma dobbiamo tenere ben in mente che che ciò che appare è solo una parte.
Perché la positività a tutti i costi è dannosa?
Il buddhismo ci insegna che la sofferenza è una condizione inevitabile dell’essere umano e che tale condizione è condivisa. Vale a dire che la sofferenza è qualcosa che ci unisce tutte e tutti. Per questo possiamo vedere un film che racconta esperienze di società molto lontane da noi, di robot, di cose che non ci succederanno mai e empatizzare con le emozioni dei personaggi. Contano le espressioni delle emozioni universali e i neuroni specchio, e conta tanto anche la capacità di riconoscere la sofferenza che rende tutto questo possibile.
I rischi della positività a tutti i costi sono molteplici:
Come abbiamo già detto in precedenza, le emozioni sono dei messaggeri che ci consegnano un’informazione. Sono immediate e non sono controllabili dalla coscienza, cioè vuol dire che oltrepassano la barriera della razionalità e della volontà.
Se non ascoltiamo quel messaggio loro ci avvisano in tanti modi e con diverse intensità, e lo fanno con segnali che vanno a influire sulla nostra salute, fisica e mentale.
Se consideriamo le emozioni in questi termini non esistono quelle positive e quelle negative, ma solo quelle che ci fanno stare bene e quelle che no, ma sono entrambe importanti e necessarie, quindi positive per la nostra sopravvivenza e per il nostro benessere.
In cosa ci possono essere utili le emozioni spiacevoli?
Fin qui abbiamo visto come la positività tossica può portare a un malessere molto più grave dell’emozione spiacevole di partenza. Ma cosa fare per interrompere questo meccanismo protettivo?
Accogliere la vita significa accoglierla tutta e non solo quello che ci hanno insegnato che va bene o quello che ci fa stare bene. Dobbiamo abituarci nuovamente allo stare nelle emozioni, solo così vivremo la vita che scegliamo di vivere senza (quasi) paure né autosabotaggi.
Nel mio primo libro ho scritto una frase che per me è una guida nei momenti bui, mi auguro possa esserlo anche per te:
[Marta Pettolino Valfrè – “Il corpo emotivo nel public speaking. Manuale pratico tra mente, cuore e strorytelling]