Psicologa | Giornalista | Docente Università | Scrittrice

La newsletter che parla di parole, pensieri e cervelli narrativi

di Marta Pettolino Valfrè

Cosa c’è di sbagliato nell’uomo della mia vita

Amore romantico

“È l’uomo per me, fatto apposta per me” cantava Mina a metà degli anni ’60. E esseri fatti o fatte per una persona soltanto presuppone anche che esista davvero l’uomo o la donna della vita. Ma cosa c’è di sbagliato nel cercare la donna o l’uomo giusto? C’è che se continuiamo a ragionare così penseremo che ci sia un’unica persona al mondo giusta per noi e tutte le altre saranno quindi sbagliate. E allora la ricercheremo per tutta la vita e le aspettative non raggiungeranno mai l’ideale, causando frustrazione o illusione. E cosa succede se quella persona, l’unica giusta per noi, inizia a mancarci di rispetto, a limitare la nostra libertà e a manipolarci fino a farci credere di non valere nulla?
C’è che questo amore così romantico nasconde uno degli stereotipi più strettamente collegati alla violenza maschile sulle donne.
Siamo nella settimana del 25 novembre, la giornata internazionale per fermare la violenza maschile sulle donne. E soprattutto qui le parole sono importanti, perché non si tratta di “violenza di genere”, dove non è esplicitato che genere fa violenza su quale altro, quella che stiamo combattendo è la violenza maschile sulle donne. Di questo stiamo parlando e per fermare questa stiamo lottando.
Amnesty International ha illustrato la violenza come un iceberg con una parte visibile, quella che esce dall’acqua, nella quale tutte le persone indicherebbero quei comportamenti come violenti: assassinio, aggressione fisica, abuso sessuale, ecc. C’è però poi una parte sommersa e invisibile, nella quale la violenza è più subdola e difficilmente riconoscibile come tale. Come per esempio ignorare una persona, colpevolizzarla, svalutarla e isolarla, in modo da minare la sua sicurezza personale. Ma qui c’è anche la pubblicità sessista che normalizza un comportamento discriminatorio. E c’è il non permettere di avere un proprio conto in banca o di lavorare, perché tanto alla donna ci pensa l’uomo. Sposati uno ricco, così ti mantiene e non devi andare a lavorare, si diceva ai miei tempi. Peccato però che l’indipendenza finanziaria femminile, ancora troppo poco diffusa, è la prima indipendenza che ci permette di fuggire dalla violenza domestica, cioè quella che avviene in casa, dai nostri padri, mariti, figli, fidanzati, compagni e ex. E non come vorrebbero Valditara e Meloni (che diffondono danni falsati pur di trovare un colpevole esterno) da immigrati che vengono da lontano e non hanno la nostra cultura. È proprio questo il problema: questa patriarcale cultura.
Nel profondo di questa violenza nascosta c’è il linguaggio, che sta a significare che la violenza nasce proprio dalle parole che usiamo o che vengono usate con e contro di noi.
Però è pur vero che pensare di voler trovare la persona giusta per noi, l’uomo o la donna della vita, non è sessismo, e allora come si collega alla violenza?

Iceberg della violenza

L’amore romantico e altri malesseri

L’amore romantico, che presuppone appunto che esista la persona giusta, è uno stereotipo molto pericoloso e fra i più radicati in occidente. Anche se potrebbe non sembrare evidente, essere romantici non implica necessariamente un amore più profondo rispetto a chi non esprime i propri sentimenti in modo plateale. Creare atmosfere dolci e suggestive è infatti una questione di personalità, non di intensità emotiva.
Lo stereotipo dell’amore romantico è pericoloso perché normalizza dinamiche di potere sbilanciate e comportamenti tossici all’interno delle relazioni, contribuendo indirettamente alla perpetuazione della violenza maschile sulle donne. Questo accade perché l’ideale romantico viene spesso costruito attorno a narrazioni che giustificano il possesso, il sacrificio e il controllo come dimostrazioni d’amore.
Ecco alcuni degli stereotipi che alimentano l’amore romantico:

  1. Idealizzazione della sofferenza
    Lo stereotipo romantico spesso glorifica il sacrificio e la sofferenza in nome dell’amore. Frasi come “l’amore vince su tutto” o “chi ama sopporta” spingono le persone a credere che tollerare certi comportamenti abusanti o manipolativi sia condizione necessaria della relazione e che il sacrificio sia un requisito dell’amore vero. Anche dire che adesso ci si lascia troppo facilmente e che una volta le coppie duravano di più senza pensare al prezzo che spesso si pagava per quella longevità è tristemente sbagliato. Quante donne erano indipendenti economicamente da potersi permettere le spese legali, una casa e di vivere dignitosamente? Magari anche con prole? Non dico che questo ora sia facilmente possibile, il lavoro per l’indipendenza economica è ancora lungo, ma passi sono stati fatti. Quindi paragonare cosa succedeva una volta con una visione distorta e guardando solo all’amore romantico, porta avanti stereotipi di sopportazione legati all’abuso e alla violenza.
  2. Il mito del “vero amore” che giustifica tutto
    Questo stereotipo spesso promuove l’idea che il “vero amore” debba essere incondizionato e assoluto, spingendo la cultura dominante a far credere che le donne debbano tollerare comportamenti abusivi. Questo mito distorce il confine tra l’amore sano e il controllo, rendendo difficile riconoscere e denunciare situazioni di violenza.
  3. L’uomo che ti completa
    L’amore romantico esalta l’idea che una donna debba trovare la propria realizzazione prima attraverso il partner o la coppia e dopo nel diventare madre, non portando attenzione ai bisogni e ai desideri di quella singola persona. Le donne, in queste narrazioni, sono spesso rappresentate come disposte a sacrificare la propria felicità, indipendenza o sicurezza per amore. Questo perpetua la tolleranza verso relazioni disfunzionali e riduce la capacità di scegliere il proprio benessere come priorità. Come diciamo io e Laura Nacci in Che palle ‘sti stereotipi, siamo nate intere, non mozze e non abbiamo bisogno di chi ci completi. Sicuramente possiamo incontrare una persona (o più) capace di arricchire la nostra vita e questo non vuol dire che prima eravamo incomplete, ma che possiamo vivere un amore bellissimo che ci dà gioia.
  4. Ruoli di genere rigidi
    Lo stereotipo dell’amore romantico si basa su una divisione rigida dei ruoli: l’uomo è il protettore e la donna la protetta. Dipinge le donne come emotivamente deboli e bisognose di protezione, mentre gli uomini assumono il ruolo di salvatori o dominatori. Questa visione non solo infantilizza le donne, ma legittima dinamiche di potere in cui l’uomo esercita un controllo, mascherato da “protezione”. Questa dinamica può giustificare atteggiamenti di controllo o gelosia maschile, normalizzando comportamenti oppressivi sotto la maschera della passione o della protezione. Quante volte abbiamo sentito: l’amore non è bello se non è litigarello, o se è geloso è perché ti ama, altrimenti non gliene fregherebbe niente? Solo che il possesso e la gelosia non c’entrano con l’amore ma solo col potere attraverso il quale spesso passa il senso di virilità stereotipato del maschio.
    Anche in età matura (storia vera di una donna di 50 anni) capita di sentire uomini che chiamano la propria fidanzata, compagna, moglie:  “piccola”, “cucciola” o “bimba”. Ma quale significato passa attraverso queste parole? Non è colpa degli uomini che parlano così, non sono loro i cattivi (non in questo caso), è la cultura di cui siamo tutte e tutti responsabili. Questa non è dolcezza e romanticismo, è infantilizzarci e tenerci sempre piccoli e dolci esseri da proteggere. Se sei una donna fallo notare, non stare più zitta, magari puoi suggerire tu un termine che ti piace e che non ti faccia sentire una bambina impaurita nel mondo. Se sei un uomo, non dircelo più e se lo senti da altri uomini diffondi questa realtà.
  5. La romantizzazione della gelosia e del controllo
    La gelosia e il controllo vengono spesso dipinti come segni di passione e coinvolgimento emotivo. In realtà, queste dinamiche alimentano il possesso e l’idea che la donna sia “proprietà” dell’uomo, una mentalità che può evolvere in comportamenti oppressivi e violenti, normalizzandoli.
  6. Mancanza di modelli sani
    Questa narrazione portata avanti dalla nostra cultura attraverso canzoni, film, libri e altre manifestazioni pubbliche si confonde con la dolcezza e con l’affettività sana. Non offre un modello di relazioni basate sull’uguaglianza, il rispetto e l’autonomia reciproca. In sua assenza, è più facile cadere in relazioni tossiche, dove la violenza può essere giustificata come parte del dramma o della passione.
    E se due persone si lasciano allora non era vero amore, perché questo dura per sempre.
  7. Colpevolizzazione della vittima
    In un contesto in cui l’amore romantico è visto come l’obiettivo supremo, le donne che scelgono di uscire da una relazione violenta possono essere giudicate come incapaci di “amare davvero” o peggio ancora “come quelle che hanno permesso quella violenza” (vittimizzazione secondaria). Questo stigma sociale può scoraggiarle dal cercare aiuto. Quando la donna cerca di sottrarsi a queste dinamiche – ad esempio, decidendo di lasciare il partner – lo stereotipo dell’amore romantico può essere un fattore scatenante per atti di violenza, poiché ci sono uomini, ancora oggi, educati a credere di avere diritti sulla donna ed educati a credere che la donna sia una loro proprietà. Lo sentiamo tutti i giorni: violenza, tentanti omicidi, acido, femminicidi. Ma non chiamiamolo raptus e non giustifichiamo questa violenza con la gelosia e con l’amore. Il femminicidio è un atto di violenza concepito e messo in atto da un figlio sano del patriarcato.

Smantellare lo stereotipo dell’amore romantico significa promuovere una visione delle relazioni in cui nessuno deve sacrificare la propria libertà, sicurezza o dignità in nome dell’amore. È un passo cruciale per prevenire la violenza e costruire legami affettivi più sani e paritari.

Come si parla d’amore oggi

Frequento spesso persone adolescenti o giovani uomini e donne e negli ultimi tempi mi hanno raccontato che quello che una volta si chiamava “il tipo o la tipa”, ovvero la persona che ci piaceva o con cui stavamo oggi si chiama “Il mio malessere. Chiamare Malessere il ragazzo (o ragazza) che piace potrebbe veicolare un messaggio implicito molto pericoloso. Questo linguaggio, anche se ironico, rischia di consolidare l’idea che il malessere sia una componente naturale, o addirittura necessaria, dell’amore.
Ci sono molti rischi maggiori legati a queste parole, qui solo i principali:

  1. Associare amore e sofferenza
    Se consideriamo normale stare male per amore, il rischio è quello di giustificare situazioni emotivamente distruttive. Si potrebbe arrivare a credere che un amore che non fa soffrire sia superficiale o poco intenso. Questo è il primo passo verso la normalizzazione di relazioni tossiche, dove il dolore diventa parte integrante della dinamica affettiva.
    Questa associazione non è nuova: nella cultura popolare, dalla letteratura ai film, l’amore è spesso dipinto come qualcosa che “vale la pena” di soffrire.
    Interiorizzare questa idea mina l’autostima e rende più difficile riconoscere i segnali di una relazione tossica o abusante. Chiamare Malessere una cotta rinforza lo stereotipo che il dolore sia una prova d’amore, alimentando l’idea che le relazioni difficili siano più autentiche o profonde.
  2. Un condizionamento linguistico potente
    Il linguaggio non è mai neutrale. Chiamare Malessere qualcuno che suscita emozioni intense significa associare un’esperienza di attrazione o amore a uno stato negativo. Col tempo, queste associazioni si sedimentano e influenzano il modo in cui interpretiamo le relazioni. In pratica, è come piantare un seme di sofferenza nel terreno dell’affettività.
  3. La libertà di amare senza soffrire
    L’amore sano non dovrebbe mai essere sinonimo di sofferenza. Un linguaggio che celebra la gioia, la serenità e il rispetto reciproco può contribuire a spostare il focus da relazioni basate sul tormento a legami fondati sul benessere e sulla crescita reciproca. Amare non significa annullarsi, ma trovare una o più persone con le quali costruire una relazione che ci faccia stare meglio, non peggio.

E se si sta bene in coppia?

Se pensiamo che l’amore vero sia quello che celebra la sofferenza allora stare bene in relazione senza grandi drammi può apparire terribilmente noioso.
È necessaria una nuova narrazione: spiegare alle persone che l’amore non è una guerra interiore, ma un dialogo. Che le farfalle nello stomaco possono esserci ma anche no, e che comunque non possono (e non devono) durare per sempre. Educare al riconoscimento delle emozioni sane e di quelle che invece rappresentano un campanello d’allarme è fondamentale per evitare che la sofferenza venga confusa con il sentimento.
In sintesi, chiamare qualcuno Malessere può sembrare ironico e leggero, ma porta con sé un messaggio che rischia di rafforzare l’associazione amore-sofferenza. Promuovere una cultura in cui il benessere emotivo è al centro delle relazioni può aiutare, soprattutto le giovani generazioni, a costruire legami più sani e soddisfacenti.
Forse sarebbe davvero il caso di introdurre l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, che ne pensi?

Un giro di lingua

La parola femminicidio non indica il genere della vittima, ma la causa.

Femmicidio è un termine che ha assunto l’accezione che conosciamo oggi grazie a Diana H. Russell che, all’interno di un articolo del 1992, usò questo termine per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini per il fatto di essere donne, cioè per motivi legati al genere. Col questo vocabolo non vengono compresi, infatti, omicidi di donne per motivi per esempio di debiti, di regolazioni di conti, per incidenti, per problemi psichici, come invece vengono compresi nelle statistiche che danno le uccisioni di uomini in numero maggiore a quelle di donne. I femminicidi comprendono le uccisioni per il fatto di essere donne o femmine, ovvero frutto di una cultura misogina e patriarcale. È con Marcela Lagarde, antropologa messicana, che il termine viene ampliato: «La forma estrema di violenza di genere contro la donna, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine, di sofferenze psichiche e fisiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia» (Lagarde y de los Ríos 2006).

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Ho scritto un libro

IL CORPO EMOTIVO NEL PUBLIC SPEAKING

Manuale pratico tra mente, cuore e storytelling

Il public speaking per me è molto di più del parlare in pubblico, perché ci fa fare i conti con noi, con le nostre paure, ma anche con i nostri sogni e le nostre speranze. È un guardarsi dentro prima che fuori, è un parlare con noi stess* prima che con le altre persone. È anche guardare in faccia cose che non ci piacciono, ed è anche imparare a conoscersi meglio e a dirsi: sono stata brava!

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Ne ho scritto un altro:

CHE PALLE ‘STI STEREOTIPI

25 modi di dire che ci hanno incasinato la vita

Le parole che usiamo non servono solo a descrivere la realtà ma influenzano inconsapevolmente anche i nostri pensieri e determinano quindi i nostri comportamenti. Occuparsi delle parole vuol dire soprattutto prendersi cura di sé e della propria mente. E non esistono cose più urgenti di dedicarci a noi e al rapporto con le altre persone. Questo viaggio ironico e al contempo molto serio ci porta, attraverso venticinque modi di dire che spesso usiamo inconsapevolmente, all’interno å una società ancora troppo maschilista, nella quale le donne troppo spesso mettono in atto comportamenti auto-sabotanti. Sono parole “di seconda mano”, che utilizziamo senza compiere una vera e consapevole scelta, sono parole non nostre ma che, nel momento in cui le pronunciamo, dicono tanto anche di noi, di chi siamo, di cosa (senza rifletterci) pensiamo e di come ci comportiamo. Grazie alle riflessioni di Nacci e Pettolino Valfrè, impariamo a riscrivere la nostra voce interiore, a disinnescare i nostri automatismi in modo che, quando staremo per esclamare a una donna: “Hai proprio le palle!”, ci verrà da ridere ripensando a cosa vuol dire, a quanto sia assurdo, e ci porterà a domandarci: “Sono veramente io che sto scegliendo questi termini?”, “Chi è la padrona o il padrone della mia mente?” e ancora: “Posso amare le parole che ho detto?”.

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