Che ne facciamo delle parole?
Lo spunto per parlare dell’importanza delle parole questa volta me l’hanno dato Ambra, nel suo discorso del primo maggio, e un’avvocata-scrittrice incontrata al Salone del libro, di cui ho scelto di non fare il nome.
La prima ha sollevato una questione importante e lo dimostra anche l’impatto che ha avuto sui media i giorni seguenti. Il bello e il brutto è che le parole sono ricchezza comune, di chi le studia e di chi le usa anche senza studiarne l’importanza. Lo scivolone di Ambra sta proprio in questo: dire cose senza informazione e consegnare armi in mano ai detrattori dell’importanza delle professioni al femminile, che adesso avranno una voce in più alla lista: avete una presidente donna, avete una segretaria del Pd donna, dovete essere contente e non tutte le donne la pensano come voi. Sì, la pensa diversamente chi non conosce la magia che creano le parole nella nostra mente, personale e collettiva.
Cosa ha detto Ambra
“Avvocata, ingegnera, architetta. Tutte queste vocali in fondo alle parole sono, saranno armi di distrazione di massa? Ci fanno perdere di vista i fatti e i fatti sono che una donna su cinque non lavora dopo un figlio, che guadagna un quinto di meno di un uomo che copre la stessa posizione.”
E ancora:
“Che ne facciamo delle parole? Voglio proporre uno scambio: riprendetevi le vocali in fondo alle parole, ma ridateci il 20% di retribuzione. Pagate e mettete le donne in condizione di lavorare.”
E da cosa saremmo distratte?
LE PAROLE SONO FATTI, perché le parole che usiamo attivano circuiti neurali che ci permettono di pensare e di fare, e a pensieri diversi corrispondono comportamenti diversi. Cambiare i pensieri sociali permette di cambiare sul lungo termine e raggiungere la parità non solo per una discriminazione alla volta (stipendi, sessualizzazione, ruoli professionali, ecc.) ma una parità pragmatica a tutto tondo.
Il linguaggio ha un impatto enorme sia a livello psicologico sia a livello sociale perché il nostro cervello funziona anche per nodi associativi, cioè una parola ne richiama altre, richiama contesti e ricordi, stati d’animo e stereotipi. Non esistono due parole uguali e non esistono due menti uguali.
Ma se qualcuno continua a pensare che le parole non sono importanti allora viene da chiedersi perché non dire avvocata, ingegnera, architetta. Se non è importante allora perché non parlare in modo corretto coordinando il genere col soggetto? Se proprio non sono importanti le parole allora perché tutta questa resistenza?
Ludwig Wittgenstein, filosofo del linguaggio e della logica (e non solo) considerato uno dei massimi pensatori del secolo scorso, ci ha insegnato che “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio pensiero”. Ovvero ciò che non nomino non esiste (o viene nascosto).
Ci sono ricerche scientifiche che dimostrano che la scelta delle parole influisce in modo diretto sull’esistenza di qualcosa per me e per il mio modello del mondo.
Di cosa abbiamo paura mettendo quella vocale? Cosa stiamo nascondendo?
Stiamo nascondendo un’alternativa all’unica storia che è stata raccontata finora, quella che il prestigio è cosa da maschi.
E perché allora sono proprio alcune donne ad aver bisogno di nominarsi professionalmente al maschile per sentirsi brave?
Perché non ci hanno insegnato che anche noi potevamo essere brave a lavoro. Ci è stato detto che il nostro ambito era quello familiare o se fuori casa comunque dedito alla cura e all’educazione, non eravamo portate per le scienze, per l’economia o per tutto il resto delle possibilità date, invece, a chi aveva il privilegio natale di essere maschio, il cui regno era quello del ruolo in società. A me non stupisce che alcune donne si sentano ancora così insicure da rinnegare il proprio genere.
Il FATTO è che continuando così stanno rinnegando anche se stesse, e un po’ anche tutte le altre.
Perché è una guerra tra povere
Volere stipendi al pari di colleghi maschi è una battaglia che va portata avanti da tutte e tutti noi, ma perché dobbiamo scegliere una sola battaglia? Perché se combattiamo per i nostri stipendi non possiamo combattere anche per essere riconosciute nelle parole e nei ruoli sociali?
Perché dover scegliere quale diritto volere a scapito di altri?
Fin quando penseremo che ci sono diritti più importanti di altri e che possiamo combattere solo per uno alla volta allora sarà sempre una guerra tra poveri, anzi tra povere.
I ricchi sanno che possono avere tutto insieme, noi no. Ci hanno abituato a non pretendere troppo e a fare una richiesta per volta, senza esagerare. Ma anche questa è una richiesta sola: parità. Solo che poi si devono seguire sentieri diversi per approdare alla parità su tutti i fronti. E allora perché invece di prendercela con chi non ci riconosce il giusto valore ce la prendiamo con chi combatte con noi nella stessa guerra, ma su un altro campo?
Sto usando non a caso la metafora della guerra, usando parole come battaglia, campo, armi, combattere. Questa è una guerra con un nemico forte e radicato, e come abbiamo visto talmente seduttivo da non farci accorgere, a volte, di stare ancora dalla sua parte. Ormai è radicato in noi e solo restando uniti e unite possiamo essere più consapevoli e scegliere su quali campi e con quali armi combattere, senza ferire i nostri alleati.