Psicologa | Giornalista | Docente Università | Scrittrice

La newsletter che parla di parole, pensieri e cervelli narrativi

di Marta Pettolino Valfrè

Il mio Natale imperfetto: un modo diverso per vivere le feste

Presepe

Natale: un periodo che oscilla tra la magia e la malinconia. Se da un lato ci regala momenti di gioia e condivisione, dall’altro può amplificare nostalgia, tristezza e pressione sociale. Ci sentiamo obbligati a essere felici, a vivere feste perfette, a rispettare aspettative non sempre realistiche. È il momento dell’anno in cui il passato ritorna con forza: ricordi, persone che non ci sono più, oppure il confronto con ciò che avremmo voluto e non abbiamo. Riconoscere queste emozioni, senza giudicarle, è il primo passo per vivere le feste con maggiore serenità.

Al passato e alla malinconia si aggiunge anche il peso degli stereotipi che ci vogliono far credere che esiste solo una famiglia giusta e che è quella tradizionale, e anche su questo termine ci sarebbe tanto da dire. Infatti, se definissi oggi famiglia in questo modo: “Comunità di persone che, indipendentemente dal genere d’appartenenza o dall’orientamento sessuale, vivono insieme per scelta e sono legate da affinità affettive, sentimentali e dalla condivisione delle attività”, penso che nessuna opinione personale possa ostacolare questa definizione e la mente potrebbe andare, soprattutto per le persone della mia età e di quelle più grandi che hanno vissuto in contesti rurali, alle case in cui vivevano più generazioni insieme e i compiti erano condivisi. Io sono cresciuta anche in campagna e lì ci viveva un sacco di gente, era più simile a una comune e in quella casa ho ricordi meravigliosi.
E se vi dicessi che quella definizione di famiglia è quella che compare su Treccani per indicare la famiglia queer?
La delusione delle aspettative, che si accompagna spesso ai momenti che dovrebbero essere felici, è frutto di un clima sociale in cui il giudizio è onnipresente e dove ci si può facilmente sentire persone sbagliate se non si aderisce perfettamente ai canoni imposti, come quello di non appartenere alla “famiglia del Mulino Bianco”, che non a caso era in una pubblicità il cui unico scopo era vendere, lo stesso scopo lo troviamo oggi in politica, ma invece dei biscotti ci vendono molliche di pane e propaganda.

Torniamo invece alla famiglia quella che ci spingono come tradizionale, beh in questa famiglia i carichi di lavoro aumentano, soprattutto per le donne: pensare agli addobbi, ai regali, a organizzare cene Pre-Natale (ma poi perché dobbiamo fare le cene per i saluti prima delle feste?) agli inviti, al menu, alle recite natalizie, ai saggi, alla lista di persone a cui inviare i messaggi di auguri, ecc.
E chi una famiglia non ce l’ha?

Quindi ricapitolando, questo periodo si accompagna a un felicità obbligata, alla malinconia di un passato che torna, al peso degli stereotipi imposti, al carico maggiore di lavoro. Ma veramente dovremmo essere felici? Per fortuna c’è chi lo è.
Il segreto sta nel non farsi risucchiare da cosa si deve fare, trasformando questo momento in una serie di cose da acquistare, organizzare e decidere. Ma tornare a dedicargli del tempo sano e partecipare davvero a questa esperienza, donando attenzione alle persone che sono con noi: le abbracciamo sentendo il loro corpo che tocca il nostro? Portiamo consapevolezza ai loro occhi, ai loro sorrisi e ai loro gesti? O non ci facciamo caso? Come ho scritto nel libro Il Corpo emotivo: la presenza (vera) è il segreto della felicità. Esserci è il regalo più bello.

Ma passato il Natale arriva il Capodanno che tiene stretti i suoi cliché: nella notte di San Silvestro si deve stare con gli amici, ci si deve divertire, bisogna fare festa e bisogna fare sesso, perché si sa chi non lo fa a capodanno non lo fa tutto l’anno. Come ho scritto in una precedente newsletter il passaggio al nuovo anno è un rituale importante: “Non è vero che la notte di San Silvestro è una come le altre, segna la fine e l’inizio, e si accompagna a speranze, malinconie e timori, esattamente come gli altri riti di passaggio”.
Il problema che si accompagna a questi momenti non è il significato sociale, psicologico e rituale, ma il fatto che se non lo si fa come è stato insegnato, allora si affaccia quel sentimento di solitudine, di stranezza e di essere sbagliate e diverse dalle altre persone. Anche chi preferisce pensare che quella notte è come tutte le altre, nel profondo sa che non è così, e ci pensa in modo diverso dalla notte di due giorni prima o dopo. É vero che il calendario è una convenzione, ma è pur vero che noi siamo cresciute e cresciuti in queste convenzioni e non possiamo liberarcene facilmente. È meglio celebrare i passaggi, questo fa bene alla nostra mente, ma dobbiamo tornare a poter interpretare a modo nostro e a scegliere il modo per onorare l’anno passato e accogliere quello futuro, allontanando così il senso di inadeguatezza.

Le feste sono momenti importanti che possono mettere a dura prova il nostro benessere emotivo, dobbiamo riconoscerlo, sapere che siamo in buona compagnia e imparare a stare in quel disagio, sapendo che nulla dura per sempre.
Io ci ho messo 7 anni a non essere più triste a Natale perché una persona che ho amato profondamente non è più con me. Oggi non sono quella di prima, ma ho scelto di passare comunque il Natale portando attenzione a chi c’è oggi, a valorizzare quel tempo e quella presenza, e prima di dormire dedico un pensiero a lei, a quella persona, e appena sveglia le mando il ricordo di un momento trascorso insieme.

Renna di legno che guarda fuori dalla finestra

Il linguaggio delle emozioni natalizie

Quali sono le parole che ti vengono in mente sul Natale? Vediamo se ne indovino qualcuna: magia, famiglia, tradizione, regali, amore, feste, pranzo. Come sono andata?
Come sappiamo il linguaggio partecipa in modo importante a creare la realtà in cui viviamo, e da dove ci arrivano le parole che abbiamo elencato? Spesso le abbiamo ascoltate nelle pubblicità e se le rileggiamo con consapevolezza scopriamo che non c’è nessuna parola capace di portare anche la complessità dell’atmosfera legata a queste feste, ma solo felicità e perfezione. Nella nostra mente, infatti, la maggior parte delle persone ha un’idea del Natale perfetto, ovvero quello che ci vendono per farci comprare.

Però poi c’è anche chi si dà un gran da fare per mostrare di odiare il Natale e spopolano i video in cui le persone manifestano il disagio per gli addobbi, per lo stare in famiglia, per i regali, ma anche qui la sensazione che ho è quella del mainstream: di dover dichiararsi controcorrente a tutti i costi e di dover per forza scegliere da che parte stare. La tendenza mostrata è quella di vivere una partita di calcio: o tifiamo una squadra o l’altra, senza alternative.
C’è anche chi odia la corsa ai regali e crede che sia solo un’idea consumistica, il che in parte è vero, e che si dovrebbero fare i regali anche senza motivo e non in un momento comandato, e pure questo in parte è vero. Però c’è il rituale e l’essere presenti in questa situazione potrebbe essere importante.
Conosco persone che acquistano regali, magari mesi prima, in base al proprio gusto e poi decidono a chi dare gli oggetti comprati. Il regalo vissuto in questo modo, cioè come una cosa che si deve fare più che un dono, allora perde del suo significato primario.

Una busta da lettere con dentro un cuore

Il significato psicologico dei regali

Dietro ogni regalo c’è un messaggio: Ti penso. Ti conosco. Ti voglio bene. Ma non sempre è così semplice: il regalo può diventare un simbolo di obbligo, competizione o perfino manipolazione emotiva. Il mio invito è quello di riflettere su ciò che davvero conta nel donare. Non è il valore economico, ma il significato che attribuiamo al gesto. E poi ci sono i regali immateriali: una lettera, un momento speciale, un abbraccio.

Il linguaggio dei regali

Anche i regali sono un linguaggio e portano una comunicazione. Un dono scelto con cura (che non vuol dire per forza comprato, ma anche creato) vuol dire “Ti conosco, so chi sei e mi prendo cura di te”, mentre un regalo generico che potrebbe andar bene per persone poco conosciute se fatto a persone con le quali intratteniamo un rapporto intimo allora potrebbe portare con sé il significato che non si è avuto la voglia di dedicare del tempo a pensare a cosa avrebbe potuto far felice quella persona.
Anche i regali troppo costosi, se non si è in una relazione che lo consente, potrebbero creare confusione e essere una dimostrazione dell’ego e della potenza di una persona verso un’altra.
La parte che potrebbe essere più importante del regalo è il bigliettino d’auguri, cosa auguri tu a quella persona? Prenditi un po’ di tempo per non scrivere frasi generiche, consuete e poco personali. Prenditi del tempo per pensare a quella persona, questo è il vero regalo.
E poi c’è chi riceve il regalo, cosa si dice di solito? “Non dovevi”, “È troppo”, o magari “Ma noi non ci facciamo regali”, tutte queste frasi minimizzano il gesto d’affetto di chi dona, è come se un po’ rifiutassimo di accogliere quel dono. È vero “Non dovevi”, ma magari “Volevi”. Possiamo sostituire queste frasi con una delle parole più belle del nostro vocabolario: GRAZIE. E poi possiamo anche aggiungere “Non me l’aspettavo” se è così.

Rituali di chiusura e buoni propositi: cosa sbagliamo

Donna in mezzo alla neve che accoglie la natura

Capodanno segna simbolicamente un confine: salutiamo il vecchio anno e accogliamo il nuovo. È il momento dei bilanci, ma anche delle promesse. E qui arriva il problema: quanto spesso i buoni propositi si trasformano in fonti di ansia e senso di fallimento? Perché tendiamo a fissare obiettivi irrealistici, spinti più dalla pressione sociale che dai nostri veri desideri. Invece, creare piccoli rituali di chiusura – scrivere ciò che vogliamo lasciare andare o ringraziare per ciò che abbiamo avuto – può aiutarci a fare spazio al nuovo, con autenticità e gentilezza verso di noi.

Il linguaggio dei nuovi inizi

Le parole associate a Capodanno sono più di speranza e di cambiamento: nuovi propositi, aspettative, progetti e rinascita, che possono risultare motivanti ma se non si parte dal qui e ora anche opprimenti. È diverso infatti dirsi: quest’anno voglio dedicare più tempo a me oppure quest’anno devono cambiare le cose, basta a lavorare così tanto. Per poi ricadere nei soliti comportamenti abituali. Le parole che rivolgiamo a noi e alle altre persone vanno amate e il primo passo per farlo è dimostrare gratitudine e accettazione, abbandonando la performance che può riempirci di ansia e rimpianti.
Le parole che ho detto ieri sera a una mia cara amica sono state: “Gli ultimi anni sono stati in salita, davvero, nella salita ho avuto un sacco di cose belle (nomina anche tu le tue, ciò che non nomini non esiste): sono usciti due miei libri, ho girato l’Italia per conferenze e formazioni, ho conosciuto persone nuove che oggi rappresentano un punto importante della mia rete di sostegno (lei è una di queste. Anche qui nomina le persone). L’ultimo anno mi ha portato un viaggio iniziatico meraviglioso, mi ha riportato a riscoprire una parte di spiritualità che avevo smarrito, mi ha portato persone importanti che mi hanno ricordato la bellezza di avere fiducia e da lì sono arrivate altre persone e nuove occasioni, perché solo quando hai il cuore aperto puoi vedere e accogliere. Quest’anno so che sarà ancora in salita, perché parte con delle cose che non posso fingere che non ci siano, ma so che posso contare sul mio equilibrio spirituale e sulla mia rete di sostegno, che sono le persone della mia vita di oggi e quelle che verranno e che io sarò pronta ad accogliere. Ci sarà un nuovo libro (SUPER SPOILER!!!) e ci saranno dei contributi a libri di due donne meravigliose. So che voglio aumentare il mio fatturato di tot, e per fare questo farò… (QUESTO NON VE LO POSSO ANTICIPARE), so che voglio aiutare le altre persone e lo farò così… e so che voglio fare un viaggio in quel posto e che voglio studiare questo, e so che mi dedicherò alle mie persone e coltiverò compassione e amore in questo modo.”
Vedete come le intenzioni sono un insieme di cose molto pratiche e obiettivi ben formati (che non ho potuto rivelare per intero 😉) e altre sono intenzioni emotive e di benessere.
💡 Provaci anche tu: dichiara a te la tua intenzione per il tuo anno, mettendoci dentro corpo, mente e storytelling.

Un giro di lingua

Si dice spesso che il Natale è la festa dei bambini e delle bambine (veramente le bambine in questa narrazione vengono dimenticate quasi sempre, vengono comprese nel maschile, ma noi tanto comprese non ci sentiamo più), e forse è davvero così. Allora questo giro di lingua lo voglio dedicare a loro, ai bambini e alle bambine che non hanno più la mamma perché un uomo ha deciso di ucciderla. Lo dedico alle vittime dei femminicidi, alle donne morte per mano di un uomo per la colpa di essere donne e ai bambini e alle bambine che non hanno più un genitore e l’altro spesso è un assassino.

E voglio farlo riportandovi la poesia scritta nel 2011 dall’artista e attivista Cristina Torre Cáceres e diventata, dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, rappresentazione della paura di tutte noi donne solo per il fatto di esser donne e della sorellanza che ci lega sempre più forte.

 

“Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.
Se non ti dico che non torno a cena. Se domani, il taxi non appare.
Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in un sacco nero (Mara, Micaela, Majo, Mariana).
Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia (Emily, Shirley).
Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata (Luz Marina).
Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata per i capelli (Arlette).
Cara mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata (Lucía).
Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato abbastanza, che era il modo in cui ero vestita, l’alcool nel sangue.
Ti diranno che era giusto, che ero da sola.
Che il mio ex psicopatico aveva delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana.
Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Te lo giuro, mamma, sono morta combattendo.
Te lo giuro, mia cara mamma, ho urlato tanto forte quanto ho volato in alto.
Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutte le donne che urleranno il mio nome.
Perché lo so, mamma, tu non ti fermerai.
Ma, per carità, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le mie cugine, non limitare le tue nipoti.
Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Lotta per le vostre ali, quelle ali che mi hanno tagliato.
Lotta per loro, perché possano essere libere di volare più in alto di me.
Combatti perché possano urlare più forte di me.
Perché possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.

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Ho scritto un libro

IL CORPO EMOTIVO NEL PUBLIC SPEAKING

Manuale pratico tra mente, cuore e storytelling

Il public speaking per me è molto di più del parlare in pubblico, perché ci fa fare i conti con noi, con le nostre paure, ma anche con i nostri sogni e le nostre speranze. È un guardarsi dentro prima che fuori, è un parlare con noi stess* prima che con le altre persone. È anche guardare in faccia cose che non ci piacciono, ed è anche imparare a conoscersi meglio e a dirsi: sono stata brava!

Dentro questo libro troverai una parte dedicata alle emozioni e a come tenerle per mano senza farti governare. C’è anche uno Speciale Ansia! Una parte è dedicata al linguaggio e a come si formano i pensieri nella nostra mente. Un’altra, a grande richiesta, è sulla comunicazione non verbale e in ultimo ci sono le mie tecniche preferite di storytelling. E tanti e tanti esercizi.

 

“È un libro che mette ordine tra falsi miti e prove scientifiche, adatto per organizzare discorsi sia preparati, sia improvvisati. Per chi vuole essere leader e muovere opinioni, per chi ha un sogno e vuole raggiungerlo, per chi vuole parlare con mille altre persone o una sola”.

Ne ho scritto un altro:

CHE PALLE ‘STI STEREOTIPI

25 modi di dire che ci hanno incasinato la vita

Le parole che usiamo non servono solo a descrivere la realtà ma influenzano inconsapevolmente anche i nostri pensieri e determinano quindi i nostri comportamenti. Occuparsi delle parole vuol dire soprattutto prendersi cura di sé e della propria mente. E non esistono cose più urgenti di dedicarci a noi e al rapporto con le altre persone. Questo viaggio ironico e al contempo molto serio ci porta, attraverso venticinque modi di dire che spesso usiamo inconsapevolmente, all’interno å una società ancora troppo maschilista, nella quale le donne troppo spesso mettono in atto comportamenti auto-sabotanti. Sono parole “di seconda mano”, che utilizziamo senza compiere una vera e consapevole scelta, sono parole non nostre ma che, nel momento in cui le pronunciamo, dicono tanto anche di noi, di chi siamo, di cosa (senza rifletterci) pensiamo e di come ci comportiamo. Grazie alle riflessioni di Nacci e Pettolino Valfrè, impariamo a riscrivere la nostra voce interiore, a disinnescare i nostri automatismi in modo che, quando staremo per esclamare a una donna: “Hai proprio le palle!”, ci verrà da ridere ripensando a cosa vuol dire, a quanto sia assurdo, e ci porterà a domandarci: “Sono veramente io che sto scegliendo questi termini?”, “Chi è la padrona o il padrone della mia mente?” e ancora: “Posso amare le parole che ho detto?”.

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