Da piccola giocavo con le parole e passavo il tempo ad ascoltare le persone grandi. Quando grande sono diventata io, ho imparato a conoscere un altro linguaggio: quello delle emozioni. Ho scoperto che con loro cambia il nostro corpo e la nostra mente e quindi la nostra vita. Linguaggio, emozioni, corpo e mente sono le mie stelle polari capaci di indicarmi la strada a ogni bivio e di guidare i miei studi e la mia conoscenza.
Scelgo di raccontarmi non tanto con il verbo essere, parola capace di intrappolare anche le anime più libere, ma con il verbo “amare”.
Amo lo scambio con le altre persone e l’arricchimento che ne deriva quando si abbandonano aspettative e giudizi. Amo studiare, viaggiare e osservare. Amo scrivere e sentire che ho ancora tanto da imparare.
Per gli amanti delle bio tradizionali vi dico che sono stata a lungo direttrice responsabile di una testata giornalistica generalista e di una di economia e finanza.
Ho una prima laurea magistrale in Scienze della Comunicazione con una tesi in semiotica del testo, sull’uomo oggetto in pubblicità, che racconta la disparità di genere nella nostra società.
Ho una seconda laurea magistrale in Psicologia con una tesi in neuropsicologia sui circuiti neurali che fanno emergere la coscienza. Come facciamo a sapere chi siamo, dov’è fisicamente la coscienza e cosa la rende possibile sono le domande che mi hanno mosso in questa indagine.
Ho studi, certificazioni e master nazionali e internazionali in linguistica, comunicazione analogica e non verbale, coaching, mindfulness e tecniche somatiche in terapia.
Sono docente all’Università degli Studi di Torino e consulente per le più grandi aziende italiane e ordini professionali. Insegno e imparo ancora tanto.
Ho due cognomi perché ho scelto di avere anche quello materno. Per tutto ciò che conosciamo abbiamo a disposizione delle parole e più le usiamo più queste diventano pensieri interiorizzati.
Funziona così anche per la violenza e la discriminazione sulle donne. Colpevolizzarle in caso di violenza, parlare e scrivere di come si sono vestite o di come si sono comportate vuol dire far esistere quella colpa, far interiorizzare a tutte e tutti noi che la colpa è della vittima.
È così anche in un altro caso: la maternità. Se ne parla tanto, la si impone ideologicamente, si condanna chi non la vuole, ma poi dopo che il grembo ha dato il suo frutto, la donna scompare, non la si nomina più.
Prendere il cognome di mia madre ha significato farla esistere per la società. Dirle: non sei più solo un grembo fecondo, sei parte della mia storia ufficiale, quella che si scrive sui documenti e sull’identità.
La società ci vuole madri ma poi ci cancella. Ci rende invisibili.
Io ho scelto di portare mia madre in ogni mio passo, in ogni mio documento. E non c’entra l’amore, che è immenso, c’entra il farla vedere, c’entra il farla riconoscere e c’entra il farla esistere ovunque ci sarà il mio nome.
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